Un Prometeo scatenato.
Niente di più, niente di meno. Questo è l’uomo per Hans Jonas, il filosofo contemporaneo che elaborò la nuova etica per la civiltà tecnologica.
Ma che cosa si indica per “etica per la civiltà tecnologica”?
Di etica ne aveva iniziato a parlare il nostro caro Aristotele, il quale aveva visto nell’etica lo strumento di salvaguardia della sopravvivenza fisica, dell’integrità dell’essere e, in particolare, dell’individuo; ma è ora che Jonas si fa avanti rivoluzionando il tradizionale concetto di etica. Egli, infatti, sostiene che in passato sia il sapere che il potere erano troppo limitati per includere il futuro più lontano nelle previsioni e addirittura il globo terrestre nella coscienza della propria casualità e, perciò, l’etica si era concentrata sulla qualità morale dell’atto momentaneo e non sulle remote conseguenze in un destino ignoto.
Ma dato che “l’agire umano è cambiato e l’etica studia l’agire, si deduce che il mutamento della natura umana esige anche un mutamento nell’etica” (scrive Jonas nel suo capolavoro “Il principio di responsabilità”): è per questo che il filosofo si pose il problema di creare una nuova etica plasmata sulle necessità della nostra nuova “civiltà tecnologica”. Egli, perciò, riuscì a sbarazzarsi di quella strutturale miopia dell’uomo moderno, anzi per meglio dire tecnologico, e comprese che quella tradizionale morale del “qui ed ora” avrebbe portato e porterà ad una apocalisse ambientale. Come se Jonas avesse visto la vita con la stessa prospettiva con qui lo fece lo scrittore Philip K. Dick nel suo “Blade runner: Gli androidi sognano pecore elettriche?”: un mondo distopico in cui la vita sulla Terra è stata gravemente messa in pericolo da una guerra nucleare globale, che ha lasciato la maggior parte delle specie animali in pericolo. Con la piccola differenza che per Jonas una via d’uscita vi era, ovvero una nuova etica.
Così il nostro filosofo giunge a superare persino l’imperativo categorico kantiano, creandone uno nuovo adatto alla nuova società; infatti, questo recitava, secondo il “test della generalizzabilità” del filosofo della “Critica della ragion pratica”: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere come principio di una legislazione universale”. Mentre a questo Jonas contrappose: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”. A prima lettura i due imperativi etici sembrerebbero molto simili, ma mentre Kant si sia limitato ad una generalizzazione in ogni tempo e luogo, Jonas riuscì a guardare oltre e parlando di una “permanenza della vita umana” non può fare altro che affermare quella “sopravvivenza indefinita dell’umanità”, cioè la consapevolezza di una futura apocalisse.
Ma perché Jonas ha una visione tanto pessimista del futuro? In realtà egli un po’ come Nietzsche, profeta di un futuro oltre-uomo, aveva compreso la natura terribile dell’essere umano e la sua futura evoluzione: l’uomo è sempre stato un “prometeo scatenato” sin dal principio, ma ciò che lo ha reso distruttivo è stata proprio la tecnologia e i nuovi strumenti adoperati e, perciò, evolvendosi non potrà che creare ulteriore distruzione. Anche in passato si pescava, ma adesso vi è l’uso della “pesca a strascico”. Anche in passato l’uomo coltivava, ma adesso vi è l’agricoltura industriale che distrugge il terreno e lo porta all’infertilità. Certo Jonas non è stato il primo a comprendere la natura umana: già lo aveva compreso la scrittrice Mary Shelley con il suo “Frankenstein, o il moderno Prometeo”, o ancora prima Sofocle, che nella sua tragedia “Antigone” definisce l’uomo “deina” (dal greco deinós, cioè la stupefacente capacità degli uomini di essere terribili e allo stesso tempo meravigliosi, di costruire e di distruggere). “Molte forze tremende ha la vita; eppure, più dell’uomo nulla, vedi, è tremendo”: così scrive Sofocle.
Quindi, secondo Jonas l’uomo dovrebbe iniziare a preoccuparsi delle conseguenze future delle sue azioni, se pur definendo l’uomo l’essere più terribile. Ma perché mai quell’essere tremendo dovrebbe preoccuparsi delle generazioni future? Certo sembra paradossale. Eppure, Jonas così come scorge il lato oscuro dell’uomo riesce comunque a vedere una luce che spegne il buio: vi è un dover essere intrinseco nell’essere, un finalismo interno alle cose che fa si che la vita esiga la conservazione della vita stessa. Cioè l’uomo per Jonas è intrinsecamente responsabile “verso l’idea dell’uomo”: “il primo imperativo categorico e l’unico assoluto è che ci sia un’umanità” (da “Il principio di responsabilità”). È quel senso di responsabilità che porta l’uomo a dire di si alla vita. Tutto ciò trova un esempio emblematico nelle cure del genitore verso il neonato: dover essere ed essere coincidono ed il genitore non può far altro che amare il figlio e sperare il meglio per il suo futuro. Certo che tra sperare e agire vi è di mezzo l’etica, direbbe Jonas.
Eppure, l’uomo non smette mai di distruggere e dominane come non ci fosse un domani. Forse quella coincidenza tra essere e dover essere è troppo debole rispetto alla forza distruttrice ed egoistica dell’uomo. Forse Jonas ha voluto essere ottimista nel suo pessimismo e se anche si volesse affermare che Jonas sia semplicemente un realista, perché l’uomo allora non ha mai smesso di comportarsi come un “Prometeo scatenato”? E se l’uomo non cambiasse mai la propria etica e rimanesse sempre quel miope autodistruttore di sé e del creato?
Forse l’uomo non cambierà mai, perché per quanto egli sia divenuto “lo zimbello della natura” con Schopenhauer o un animale da soma che si muove verso un “eterno precipitare” con Nietzsche, forse l’uomo attuale è molto più di tutto ciò: egli vuole scavalcare i limiti, vuole distruggere, vuole dominare la natura a causa della sua stessa natura, a causa di quell’inconscio freudiano, del Thanatos. Quindi, magari è la natura ad essere lo zimbello di se stessa, mentre l’uomo non è né cammello né superuomo.
Ma, quindi, cosa propone il nostro Jonas? Egli studia anche l’euristica della paura e giunge alla conclusione che la ricerca di nuovi principi etici è stimolata dalla paura della catastrofe. E cosa c’è di più vero? Magari è vero, essere e dover essere coincidono, ma l’unica verità inconfutabile è il prometeismo dell’uomo e la sua piccolezza davanti a qualcosa più grande di lui: è come quando si scopre il buio solo quando si scopre l’esistenza la luce; l’uomo si sente superiore a tutto finché non scopre qualcosa di più grande di sé e si confronta con esso. Infatti, l’euristica della paura ha portato al principio di precauzione: l’umanità ha iniziato a comprendere l’imminente catastrofe solo quando ne ha avuto davvero paura e solo allora ha iniziato a prendere in considerazione anche gli effetti ipotetici delle azioni.
Quindi, forse non è grazie alla coincidenza tra essere e dover essere che l’uomo ha iniziato a preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni, ma paradossalmente grazie alla paura, anzi all’angoscia, quella sensazione kierkeegardiana del futuro come possibilità. “Sappiamo ciò che è in gioco soltanto se sappiamo che esso è in gioco” scrive Jonas.
Forse, però, quell’angoscia non è ancora abbastanza, perché l’uomo ha ancora tanto da imparare sulla bioetica, quella morale della vita che dovrebbe costituire un ponte capace di garantire la sopravvivenza dell’uomo contro il cancro della rivoluzione tecnologica. Chi vincerà questa battaglia? Riusciremo a trovare una cura per quel cancro che ci siamo creati da soli?
Vittoria Ravalli