Ultimamente si è molto discusso di intelligenza artificiale (AI) e dei suoi incredibili sviluppi che ci permettono di comprendere, prevedere o manovrare qualsiasi cosa.
Questo sviluppo quasi incontrollabile, però, sta preoccupando i più importanti esperti in materia che si sono chiesti se sia vantaggioso e, soprattutto, non dannoso, per noi uomini, sviluppare strumenti così avanzati. La preoccupazione è che le menti artificiali possano superarci e, addirittura, sostituirci.
Per rispondere a questo attualissimo quesito bisogna prima conoscere l’intelligenza artificiale, partendo dalle sue origini, e poi chiederci se sia effettivamente possibile che una mente non umana possa pensare.

Nel 1950 il celebre matematico inglese, Alan Turing, scrisse l’articolo intitolato “Computing Machinery and Intelligence”, in cui proponeva quello che sarebbe divenuto noto come “test di Turing”. Secondo il test, una macchina poteva essere considerata intelligente se il suo comportamento, osservato da un essere umano in una conversazione cieca, risultasse indistinguibile da quello di una persona.
Col tempo, poiché i macchinari dell’epoca non disponevano di una capacità computazionale adeguata, questa e altre aspettative non furono mantenute e ciò portò alla frammentazione dell’Intelligenza Artificiale in distinte aree basate su teorie diverse, introducendo una differenza sostanziale tra due categorie di Intelligenze Artificiali, o meglio due concezioni della stessa: IA forte e IA debole, così chiamate dallo studioso John Searle.
I sostenitori della prima categoria consideravano il calcolatore non come uno strumento per lo studio della mente quanto piuttosto un hardware dove poter installare un software che potesse simulare una vera mente; i sostenitori dell’IA debole, invece, la vedevano come uno strumento potente al servizio dell’umanità, ma limitato, ovvero in grado di ottenere esclusivamente risultati precisi e rigorosi.
Sostenitore di quest’ultima categoria fu proprio Searle, che si trovò a scontrarsi con l’idea diffusa che la mente umana fosse replicabile all’interno di una macchina e, per avvalorare la sua tesi, propose il suo celebre esperimento della Stanza Cinese:

Immaginiamo che un individuo venga rinchiuso in una stanza. Questa persona è madrelingua inglese e non capisce la lingua cinese: né in forma scritta, né in quella parlata. Nella stanza questo individuo trova un foglio zeppo di ideogrammi cinesi e un secondo foglio, sempre rigorosamente scritto in cinese, con una serie di domande. L’uomo quindi si trova davanti a due serie di simboli che per lui non hanno alcun significato. Ma nella stanza si trova anche un libro con una serie di regole scritte in inglese che gli spiegano come abbinare i simboli del primo foglio con quelli del secondo foglio.
Supponiamo che il primo foglio sia una storia scritta in cinese e il secondo una serie di domande inerenti alla storia. A quel punto l’uomo comincia a produrre output di risposta, seguendo alla lettera le istruzioni che gli sono state consegnate. In questo esempio le istruzioni rappresentano il software, il programma del computer. Le risposte che l’uomo produce sono formalmente giuste, perché ha eseguito alla lettera le istruzioni che gli sono state consegnate insieme agli ideogrammi. Nonostante questo, non ha compreso nulla di quello che ha ricevuto, di quello che ha risposto e, ovviamente, non conosce ancora il cinese.
Tuttavia, immaginando un osservatore esterno all’esperimento, magari madrelingua cinese, costui potrebbe pensare che l’uomo dentro la stanza abbia una buona padronanza della sua lingua. Ciò che l’uomo fa, in realtà, è soltanto seguire delle istruzioni: se hai questo tipo di input, manda questo tipo di output.
Questa conclusione si basa sulla differenza tra sintassi – le regole per la corretta costruzione di enunciati – e semantica, cioè il significato che è l’oggetto della comprensione genuina. Il computer in questo caso manipolerebbe soltanto dei simboli, si occuperebbe di tradurre facendo corrispondere ad una serie di simboli una serie di altri simboli. Ne segue la conclusione di Searle, che si richiama alla domanda circa la possibilità di pensiero delle macchine:
“Può una macchina pensare?” La mia opinione è che solo una macchina possa pensare, e, in verità, che solo tipologie speciali di macchine, cioè cervelli e macchine che abbiano gli stessi poteri causali dei cervelli.
Marta Lattuca IV D

2 Comments
SIlvio Castellana
Bellissima e chiarissima spiegazione! Ho le idee molto piu’ chiare adesso: solo la macchina uomo dotata di coscienza puo’ pensare e quindi esistere in quanto uomo. Grazie!
Silvio Castellana
Complimenti! Ho le idee molto piu’ chiare adesso. Solo la macchina uomo in quanto dotata di coscienza e’ in grado di pensare e quindi di esistere in quanto uomo. Complimenti!